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Abbigliamento: le etichette dovrebbero parlare di sostenibilità



Ogni anno la Commissione Europea effettua uno screening dei siti web per individuare eventuali violazioni del diritto dei consumatori dell’Ue nei mercati online. Nel 2021 questa indagine si è concentrata specificatamente sull’individuazione del greenwashing: è emerso che nel 42% dei casi le affermazioni riportate sull’etichetta erano esagerate, false o ingannevoli e che potrebbero potenzialmente qualificarsi come pratiche commerciali sleali ai sensi delle norme comunitarie.
Se nel settore alimentare l’etichettatura non solo è normata, ma anche ormai pretesa dal consumatore, quando si parla di tessile la questione rimane ancora fumosa. Al netto della composizione di abiti e accessori, attualmente sull’etichetta compaiono spesso locuzioni vaghe, pensate il più delle volte con il preciso scopo di confondere il consumatore o addirittura ingannarlo perché oggi, detta in termini spiccioli, la sostenibilità paga.
Quali sono, però, gli elementi fondamentali che dovrebbero essere presenti sull’etichetta per consentire ai consumatori di fare delle scelte consapevoli?
Come prima cosa l’etichetta dovrebbe informare i consumatori sul pieno impatto del prodotto, dall’acquisizione di materie prime o risorse naturali fino allo smaltimento finale.
Che tipo di indicazioni possono essere fuorvianti?
Una su tutte: i tessuti che contengono fibre ricavate dalla plastica riciclata non possono definirsi sostenibili quanto quelli realizzati con fibre naturali. Eppure, vengono spesso presentati come prodotti più rispettosi dell’ambiente. Le fibre sintetiche già frutto di un processo di riciclo non sono più riciclabili, al contrario delle fibre naturali, e in più rilasciano microplastiche nell’ambiente ad ogni lavaggio.

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Redazione Ratio Famiglia

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