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Lavoro: come difendersi dal mobbing

La diffusione e la vasta casistica di atti e comportamenti vessatori reiterati nel tempo da parte del datore di lavoro, dei superiori gerarchici o dei pari, finalizzati alla marginalizzazione, alla mortificazione e all'esclusione di un determinato dipendente dall'ambiente lavorativo, hanno condotto la giurisprudenza ad occuparsi del fenomeno mobbing, nel tentativo di definirne l'ambito del giuridicamente rilevante.
In buona sostanza, il mobbing si configura ogniqualvolta il lavoratore subisca una mirata reiterazione di atti o comportamenti vessatori da parte dei suoi superiori gerarchici ovvero dei suoi pari, preordinati a cagionarne l'isolamento nell'ambiente di lavoro, con conseguente lesione del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità.


Dovere di tutela del datore di lavoro
La riconduzione del mobbing tra le ipotesi di violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c. ha consentito alla giurisprudenza di superare l’orientamento della duplice natura - contrattuale ed aquiliana - della responsabilità datoriale e di affermarne la natura esclusivamente contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c., essendo la stessa fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente.
Come è stato già osservato, il dovere di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore gravante sul datore di lavoro, che si declina nell’adozione di tutte le misure necessarie a raggiungere lo scopo, rientra a tutti gli effetti tra le prestazioni che sorgono a carico del datore in forza della stipulazione del contratto di lavoro subordinato. Ne consegue che “stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale” (Cass. S.U. 24.03.2006, n. 6572).
La violazione degli obblighi predetti può sostanziarsi tanto in condotte attive quanto in condotte omissive, quale potrebbe essere l’inerzia del datore nella rimozione del fatto lesivo di cui conoscesse l’esistenza.
Sul punto, infatti, la Cassazione ha più volte precisato che “la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. - non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo” (ex multis Cass., 11.06.2021, n. 16534; Cass., 25.07.2013, n. 18093).

La difesa
Ebbene, a fronte dell’inadempimento in parola, il lavoratore potrà azionare uno degli strumenti di tutela previsti dall’art. 1345 c.c., a mente del quale, nei contratti a prestazione corrispettive, il contraente adempiente può chiedere al giudice l’esatto adempimento della prestazione ovvero la risoluzione del rapporto, fatta salva, in ogni caso, la possibilità di agire per il risarcimento del danno, anche attraverso l’instaurazione di un autonomo giudizio. Nondimeno, il lavoratore potrà agire in autotutela ai sensi dell’art. 1460 c.c., sollevando la c.d. eccezione di inadempimento, che si sostanzia nel rifiuto di adempiere la propria obbligazione fino a che perduri l’inadempimento della controparte.
Infine, su un piano squisitamente lavoristico, il lavoratore vessato potrà presentare le dimissioni per giusta causa ex artt. 2112, 2118 e 2119 c.c., in assenza di qualunque obbligo di preavviso. Il rimedio, comportando la cessazione del rapporto di lavoro, si pone quale soluzione drastica e definitiva, percorribile allorché le condotte ostili integrino inosservanze così gravi degli obblighi datoriali da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto. A fronte delle dimissioni il lavoratore acquista il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso e la NASpI, oltre al risarcimento dei danni eventualmente patiti.

Il risarcimento
L’azione di risarcimento del danno, oltre a poter essere esperita nei confronti del datore di lavoro, per le condotte proprie e per quelle poste in essere dai sottoposti su cui non abbia correttamente vigilato, può intervenire anche nei confronti dei colleghi che si siano resi responsabili del danno: sugli stessi, infatti, grava il generale divieto del neminem laedere che fonda la responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. L’azione aquiliana, seppur meno vantaggiosa per il danneggiato sia sotto il profilo probatorio - si ricordi che grava su questi la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie (il fatto dannoso, il danno, il nesso causale e la colpa) – sia sotto quello della prescrizione quinquennale, consente tuttavia di ampliare le maglie del danno risarcibile quale conseguenza diretta ed immediata della condotta illecita, non applicandosi il temperamento della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c. Ad ogni modo, che il lavoratore invochi la tutela aquiliana o quella contrattuale, tra i danni risarcibili si annoverano tanto i danni patrimoniali, immediatamente suscettibili di valutazione economica in quanto consistenti nella perdita di un bene facente parte del patrimonio (danno emergente) ovvero nel mancato ingresso nello stesso di una qualsiasi utilità (lucro cessante), quanto i danni non patrimoniali che, attenendo ad interessi non economici del danneggiato, sono liquidabili in via equitativa (artt. 1126 e 2056 c.c.).
In particolare, in presenza di mobbing il danno patrimoniale la cui verificazione appare statisticamente più probabile è quello professionale: esso può consistere sia nel “pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità” sia “nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno”. In ogni caso, al fine di vedersi riconoscere tale pregiudizio è richiesta al lavoratore una rigorosa ed adeguata allegazione degli elementi concreti dai quali evincere il danno alla professionalità sotto forma di lucro cessante o di perdita di chance. In mancanza di detti elementi e fermo restando l’inadempimento, l’interesse del lavoratore si esaurirebbe, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.

Danni non patrimoniali
Nel novero dei danni non patrimoniali scaturenti dalla condotta mobbizzante, rientrano il cd. danno biologico, consistente nella lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, suscettibile di accertamento medico-legale, nonché il cd. danno esistenziale, che si concretizza nella lesione del diritto fondamentale del lavoratore di esplicare liberamente e dignitosamente la sua personalità anche nel contesto lavorativo (art. 1 e 2 Cost.). Tale voce di danno, al fine del suo riconoscimento giudiziale, non deve rimanere confinata alla sfera intima del danneggiato, come accade per il pati riconducibile al danno morale, ma deve estrinsecarsi nell’alterazione delle abitudini di vita e degli assetti relazionali della vittima idonea. Affinché il danno esistenziale sia oggettivamente accertabile del pregiudizio, infatti, il lavoratore deve provare il compimento di scelte di vita diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso (cfr. Cass. S.U. 24.03.2006, n. 6572 cit.).

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Riguardo l'autore

Gianluigi Fino

Gianluigi Fino

Area: Diritto fallimentare e procedure concorsuali - Diritto bancario - Diritto societario e commerciale