Al giorno d’oggi il tema delle vaccinazioni è di grande attualità, essendo uno degli strumenti necessari per affrontare l’emergenza epidemiologica in atto.
Il dibattito è aperto su 2 grandi temi: il primo riguardante un possibile obbligo vaccinale nei confronti di alcune categorie di lavoratori e la possibile collocazione di tale obbligo all’interno della normativa vigente, il secondo, invece, riguarda le conseguenze che si possono determinare in caso di rifiuto da parte del lavoratore.
Al fine di compiere un’analisi, non essendo ad oggi previsto dalla legge un obbligo vaccinale, è necessario percorrere le fonti normative attualmente disponibili.
 
L’art. 32 della Costituzione prevede espressamente che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Tale principio esprime con evidenza il fatto che, in assenza di una legge che preveda l’obbligo di vaccino contro il Covid-19, nessuno può essere obbligato ad accedervi.

Cosa dice la legge
Tuttavia, analizzando il quadro normativo, è possibile ritenere che il datore di lavoro, in alcune situazioni, abbia la facoltà di richiedere la vaccinazione ai propri dipendenti.
A tal proposito, occorre richiamare gli articoli 2087 del Codice Civile e l’art. 41 della Costituzione, i quali prevedono, rispettivamente, quanto segue: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” e “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Gli articoli citati lasciano intendere che vi sia in capo al datore di lavoro la possibilità di considerare il vaccino come il giusto strumento per gestire in modo sicuro la propria impresa. Tuttavia, nonostante tali previsioni, l’art. 32 della Costituzione già citato limita fortemente il potere del datore di lavoro nello stabilire un obbligo vaccinale nei confronti dei lavoratori dipendenti, prevedendo che questi ultimi abbiano esclusivamente una facoltà ad effettuare il vaccino su richiesta del datore di lavoro e non un obbligo.
Inoltre, il Garante della privacy, attraverso le FAQ pubblicate sul proprio sito Internet, ha escluso la facoltà del datore di lavoro di richiedere ai propri dipendenti informazioni sul proprio stato vaccinale, oppure copia dei documenti che comprovino l’avvenuta vaccinazione anti Covid-19, anche nel caso in cui il lavoratore fornisca il suo consenso. A tal proposito, la normativa riguardante il consenso, prevede che la libertà di prestare il consenso sia assicurata qualora non sia presente un evidente squilibrio tra l’interessato ed il titolare del trattamento e, nel rapporto di lavoro, è naturalmente presente uno squilibrio tra le parti contrattuali.

Idoneità lavorativa
Pertanto, alla luce del quadro normativo esistente, il datore di lavoro può richiedere solo i giudizi di idoneità alla mansione specifica. Più specificatamente, il datore di lavoro ha il diritto, anzi il dovere, di raccogliere i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni stabiliti dal medico competente, il quale, durante il periodo di emergenza epidemiologica, ha acquistato un ruolo sempre più rilevante. A prova di ciò, l’affermazione compiuta dal Ministero della salute attraverso una circolare di Aprile 2020, con la quale afferma che il medico competente debba essere considerato come “consulente globale del datore di lavoro”.
Se il datore di lavoro, sulla base delle specifiche mansioni e rischi che possono essere previsti per i lavoratori, chiedesse a questi ultimi di effettuare il vaccino, in caso di diniego, potrebbe sottoporli alla visita medica per la verifica dell’idoneità, sulla base del protocollo sanitario relativo alla specifica mansione.
Ove il medico attesti una temporanea inidoneità alla mansione, il datore di lavoro deve valutare se l’attività normalmente svolta dal lavoratore possa essere gestita attraverso lo smartworking oppure se il lavoratore possa essere adibito ad altre mansioni per le quali non si renda necessaria l’idoneità lavorativa.

La sospensione
Nel caso in cui non sia possibile lo spostamento temporaneo del lavoratore ad altra mansione o unità lavorativa, si potrebbe procedere con la sospensione del lavoratore che rimane un provvedimento da attuare come extrema ratio, cioè come misura estrema per la tutela della salute del lavoratore e, in tal caso, il datore di lavoro non sarebbe tenuto a corrispondere la retribuzione.
L’orientamento giurisprudenziale maggioritario è in linea con tale previsione e conferma il principio secondo il quale il datore di lavoro non sarebbe tenuto al pagamento della retribuzione qualora le prestazioni lavorative non vengano prestate, in seguito al divieto derivante dalle prescrizioni del medico competente.
La prima ordinanza in tema di vaccino Covid-19 del Tribunale di Belluno, datata 19.03.2021, ha stabilito la legittimità della sospensione in ferie forzate di alcuni dipendenti di una RSA che non si sono sottoposti al vaccino. In tale circostanza, il giudice ha ammesso la facoltà di applicare l’art. 2087 C.C., il quale permette al datore di lavoro di adottare le misure che “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Pertanto, il giudice della sentenza, nell’ammettere che il vaccino può essere già ritenuto uno strumento efficace nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus Covid-19, afferma che, trattandosi di mansioni svolte nell’ambito di assistenza sanitaria che comporta il contatto con persone che accedono al luogo di lavoro, la permanenza dei lavoratori nel posto di lavoro comporterebbe, in capo al datore di lavoro, la violazione dell’art. 2087 C.C. che impone di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti.
Inoltre, il giudice ha ritenuto legittima la sospensione in ferie forzate, essendo il periodo di ferie annuale retribuito da usufruire nel tempo in cui il datore di lavoro lo stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. Nel caso in esame, il giudice ha confermato che l’esigenza dell’impresa di utilizzare la sospensione con utilizzo delle ferie, riscontrabile nell’attuare le disposizioni contenute nell’art. 2087 C.C., ha prevalso sull’interesse individuale del lavoratore nell’individuazione del periodo in cui fruire delle ferie.
Alla luce della normativa e della sentenza richiamata, in assenza di uno specifico provvedimento legislativo, si ritiene che le conseguenze al rifiuto al vaccino possano consistere nella sospensione con utilizzo di ferie o permessi retribuiti, qualora disponibili, oppure in una sospensione non retribuita, essendo per il momento esclusa la possibilità per il datore di lavoro di effettuare il licenziamento.

Riguardo l'autore

Francesco Saverio Sulpasso