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Attenzione alle offese sui social!

Pubblicare frasi, immagini o emoticon offensive sui social è un reato



La diffamazione e l’aggravante per l’uso di social
Chi offende la reputazione altrui comunicando con più persone in assenza della vittima commette il reato di diffamazione ed è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a € 1.032,00 (art. 595, c. 1 del Codice penale). Se ciò avviene attraverso la pubblicazione di un messaggio (sia esso una parola, una frase, un’immagine o anche, solo, un emoticon) su un social network, si configura il reato di diffamazione aggravata dall’uso di un “mezzo di pubblicità” che comporta la pena più severa della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a € 516,00 (art. 595, c. 3 del Codice penale).
 
Per “mezzo di pubblicità” si intende uno strumento di ampia e indiscriminata diffusione di messaggi tra un numero indeterminato di persone (Cassazione Penale sentenza n. 9384/1998). Il social network è equiparato al “mezzo di pubblicità” per la vasta platea a cui si rivolge e, quindi, per la potenzialità lesiva che lo caratterizza.

Dalle norme richiamate emerge che, per parlare di diffamazione aggravata dall’uso di social, devono verificarsi le seguenti condizioni: 
  • il messaggio deve essere diretto e visibile a più persone tramite i social;
  • la vittima deve essere assente;
  • il messaggio deve offendere la reputazione della vittima. 
La visibilità da parte di più persone si presume nel momento in cui il messaggio viene pubblicato su un social (Facebook, Instagram, Tik Tok, WhatsApp, ecc.) proprio poiché tale mezzo, per sua natura, è destinato ad un numero indeterminato di persone (Cassazione Penale sentenze nn. 24431/2015 e 3963/2015). In ogni caso è sufficiente che il messaggio sia stato letto da almeno due persone perché si configuri il reato di diffamazione.
L’assenza della vittima è evidente qualora l’offeso non sia presente sul social ove viene pubblicato il messaggio, ma la vittima si considera assente anche quando non è “online” e, quindi, non può esserci quella “contestualità” fra la comunicazione dell’offesa e il recepimento da parte della vittima, che permetterebbe a quest’ultima di difendersi, confrontandosi immediatamente con l’offensore (Cassazione Penale sentenza n. 2251/2022).
 
Se, invece, la vittima è presente sul social ed è online nel momento della pubblicazione dell’offesa non si configura il reato di diffamazione ma si ricade nell’ingiuria (Cassazione Penale sentenza n. 44662/2021). 

Tale distinzione è molto rilevante. L’ingiuria, infatti, dal 2016, non è più un reato ma solo un illecito civile con la conseguenza che il colpevole non commette un delitto e non viene sottoposto ad una sanzione penale, come, invece, nel caso della diffamazione, ma può subire solo una condanna civile a risarcire l’offeso per il danno arrecato ed a pagare una sanzione pecuniaria allo Stato.
Stabilire, invece, se il messaggio lede la reputazione altrui è un’operazione che richiede un attento esame caso per caso.

Offendere la reputazione
Per capire se un messaggio sia lesivo della reputazione altrui è necessario esaminare non solo il suo significato letterale e la sua potenzialità lesiva delle qualità personali, morali, sociali, professionali di un individuo, ma anche, e soprattutto, il contesto in cui viene utilizzato e il senso che il mittente intende attribuire al messaggio anche grazie all’uso di emoticon che possono far assumere diversi toni alle parole.
 
Lo stesso messaggio in un contesto può essere espressione del normale diritto di critica, tutelato quale libera manifestazione di pensiero, giudizio ed opinione dall’art. 21 della Costituzione, mentre, in altro contesto, può assumere una connotazione offensiva con conseguente configurazione del reato di diffamazione. Il confine fra diritto di critica e diffamazione è sottile.

Per verificare se il messaggio rientra o meno nel limite del diritto di critica la Giurisprudenza ha ritenuto che si debba far riferimento al principio della “continenza” dell’espressione verbale.
Il principio della “continenza” esige che l’espressione usata, seppur pungente e forte, sia proporzionata e funzionale all’informazione che si vuole dare e non si traduca in espressioni gravemente infamanti, non pertinenti e inutilmente umilianti che costituiscano una mera e gratuita aggressione della vittima, come hanno stabilito numerose sentenze di Cassazione penale. 
In sostanza, se il messaggio non costituisce un gratuito attacco ad una persona finalizzato solo all’umiliazione ed al discredito della sua reputazione, non si configura il reato di diffamazione, ma si rientra nell’esercizio del libero diritto di critica.
In merito alle sanzioni penali previste dalla legge in caso di diffamazione (reclusione o multa) va precisato che, ad eccezione del caso in cui vi siano precedenti penali o di casi particolari, in genere, non “si finisce in carcere”, poiché le sanzioni, solitamente, rientrano fra quelle per cui il nostro sistema penale prevede l’applicazione di strumenti come la sospensione condizionale della pena, le pene sostitutive o le misure alternative alla detenzione. 

Cosa può fare la persona offesa?
Entro 3 mesi dal momento in cui il messaggio diffamatorio è stato immesso in rete,
o da quando ne è venuto a conoscenza, il destinatario può presentare denuncia-querela all’Autorità Giudiziaria (Polizia Postale, Carabinieri, Procura della Repubblica, ecc.). In tal modo si avvia un procedimento penale nei confronti del mittente che, in caso di condanna, sarà punito con la reclusione o con la multa.
Se l’offeso richiede il risarcimento del danno, costituendosi parte civile nel processo penale, alla sanzione penale può aggiungersi la condanna al risarcimento la cui entità potrà dipendere dal tipo di offesa, dal soggetto a cui è rivolta (in particolare dalla professione svolta, dall’eventuale ruolo pubblico ricoperto, ecc.), dal tempo di permanenza online del messaggio e dal potenziale numero dei destinatari del messaggio.
Va precisato che, in alternativa rispetto alla costituzione di parte civile nel processo penale, la vittima può promuovere una distinta azione civile al fine di ottenere il risarcimento del danno subito.

Come si prova la diffamazione a mezzo social?
La prova della diffamazione a mezzo social si può raggiungere grazie alla riproduzione fotografica dei messaggi ritenuti offensivi (Cassazione Penale sentenza n. 17552/2021), con la precisazione che tale riproduzione, poiché usata per investigazioni difensive o per far valere un diritto in giudizio, non comporta violazione della privacy (Cassazione Civile ordinanza n. 13121/2023).
Tuttavia, poiché i messaggi possono essere modificati, per rendere affidabile la prova, è necessario consegnare al Tribunale anche il supporto che li contiene (in genere lo smartphone) (Cassazione Penale sentenza n. 49016/2017).
 
Se non si può consegnare lo smartphone in Tribunale si può utilizzare lo screenshot dei messaggi accompagnato da un’attestazione di conformità all’originale rilasciata da un notaio oppure si può far trascrivere su carta i messaggi da parte di un perito tecnico che ne certifichi l’autenticità oppure si possono chiamare a testimoniare persone che abbiano letto i messaggi e possano confermarne il contenuto. 

Peraltro, la prova testimoniale dei soggetti presenti sul social serve anche a dimostrare che l’offesa ha raggiunto più persone. 
è necessario, poi, identificare correttamente il mittente del messaggio poiché il profilo di una persona può essere usato anche da altri (es. amici, parenti, hacker) con o senza il suo consenso.
In genere la Polizia Postale che si occupa delle indagini individua il responsabile tramite il codice Id (codice riferito all’account di ogni utente) e l’indirizzo Ip (codice riferito al dispositivo connesso ad una rete che ne permette la localizzazione). Tuttavia, la Corte di Cassazione Penale, con la sentenza n. 4239/2022, ha affermato che “in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio dall’indirizzo IP dell’utenza telefonica intestata all’imputato” è possibile dimostrare la provenienza del messaggio attraverso indizi purchè siano gravi, precisi e concordanti fra loro (per esempio quando lo studio del movente che ha spinto alla pubblicazione, dell’argomento del forum, del rapporto fra le parti e della provenienza del messaggio dalla bacheca virtuale dell’imputato con uso del suo nickname, porta ad identificare, quale mittente, un certo soggetto).
 
Alla luce di tutto quanto sopra si può concludere che la pubblicazione di messaggi offensivi su social, pur essendo ormai un comportamento diffuso, abituale e ritenuto spesso “normale”, costituisce, in realtà, un reato con gravi conseguenze penali e risarcitorie a carico del mittente. Per non correre rischi, prima dell’invio del messaggio, sarebbe opportuno riflettere qualche istante sul suo significato e sulla possibilità che lo stesso oltrepassi il limite del diritto di critica e sia lesivo della reputazione altrui. 

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Riguardo l'autore

Eleonora Arria

Eleonora Arria

Area: Diritti